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Mafia e Cultura Mafiosa (2014)

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Mafia e cultura mafiosa_th

Se fosse un fenomeno senza radici  nel sociale, la  mafia avrebbe i giorni contati: al pari delle Brigate rosse che, prive di  legami col tessuto della società, furono isolate e vinte.  I pesci hanno bisogno di acqua per nuotare, si disse allora a  proposito dell’appoggio  fornito da  poche centinaia di fiancheggiatori  ai  gruppi di fuoco brigatisti.  Ma un sistema di  potere come quello mafioso – capace  di  conformarsi al mutare dei regimi e delle istituzioni; di  entrare  in simbiosi con  lo sviluppo delle forze produttive; di imporre rapporti di produzione funzionali ai propri interessi; dotato  di  abilità  mimetiche tali da  indurre ancora oggi intellettuali e opinione pubblica a ignorarne la natura e a sottovalutarne la pericolosità o, appena ieri, a negarne l’esistenza – non si spiega se non collegandolo a radici culturali diffuse e profonde. Il mito della sua invincibilità, il suo imporsi all‘immaginario collettivo come idra dalle cento teste, piovra dai mille tentacoli, araba fenice sempre in grado di risorgere dalle ceneri per adattarsi in modo proteiforme alle mutazioni economiche e politiche, deriva dalla  incomprensione della natura egemonica della cultura mafiosa: che rilascia, a mo’ di precipitato, la mafia come sistema di potere. Se quindi – lo sostiene  Gramsci – è un complesso sistema di mediazioni e di rapporti a stabilire un‘egemonia, cioè una compiuta capacità direttiva; e per la mafia tale sistema si risolve, in Sicilia, nei legami organici con la politica, le istituzioni, la burocrazia, il mondo del lavoro – in sintesi: con la società civile – che si radicano in  una osmosi culturale con l’ambiente pressoché perfetta, la fine del contropotere mafioso è destinata a coincidere con la fine di questa osmosi: quando sarà ridotto a delinquenza comune estranea al corpo sociale, e perciò suscettibile di essere emarginato e sconfitto mediante l’uso degli ordinari mezzi repressivi.

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Cosenza , 2014, Pellegrini

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